Damasco, Suad Amiry
La parola “damasco” mi ha sempre fatto pensare a qualcosa di “ricco” e “dettagliato”. Se devo immaginare, dentro la mia mente, quel che mi evoca tale parola, mi si apre un universo pieno di colori, tessuti, sete, spezie, bazar, non so bene perché. Forse perché la città di Damasco non l’ho mai vista, forse perché in quanto occidentali siamo abituati a cliché cinematografici, che raffigurano l’Oriente come un agglomerato di gialli e rossi, tende damascate per l’appunto, pavimenti con mosaici, archi e feritoie con tali particolari, che solo chi vive in prossimità del deserto che si inabissa nel mare, potrebbe concepire.
In fondo, Damasco di Suad Amiry non si allontana troppo da questa descrizione. La villa di Teta e Jiddo è una magione principesca (casa Baroudi – “uno dei più splendidi palazzi settecenteschi”) e la città è al-waha, una città-oasi. Siamo nel 1926 quando il racconto inizia, ma Teta e Jiddo si sposano nel 1896, quando lei ha quattordici anni e lui trentaquattro. Sicuramente la Grande Capitale della Siria è qualcosa di splendido e di lontanissimo dalla Damasco di oggi, dopo la devastazione di guerra, bombe e uccisioni.
Dopo trent’anni di matrimonio e nove figli, Teta può tornare finalmente in Palestina, a trovare la famiglia che ha lasciato quando il padre le aveva scelto il marito. Così inizia il libro ed è solo qui che la donna prende coscienza di sé e si rende conto di non aver più pensato alla madre o ai fratelli, se non dopo tutto questo tempo. Non sarebbe potuta tornare, comunque, fino a quando non avrebbe dato alla luce un figlio maschio e, tolto il primogenito che muore dopo pochi mesi, partorisce quattro figlie femmine prima della nascita di Hakim, soprannominato “Amir”, il principe. Ma dopo questo figlio maschio, ne arrivano altri due, fino a Samia, l’ultima, quella a cui lei tiene di più e che porta con sé nel viaggio in Palestina.
Teta è la donna su cui viene costruito l’intero impianto del libro e Jiddo è l’uomo, di cui il flusso narrativo non si dimentica mai, nemmeno quando prosegue e racconta le vicissitudini dei suoi discendenti, fino alla vita della voce narrante (la nipote, figlia di Samia e autrice del libro) che, partendo dal 1862, giunge fino al 2005.
Quando Teta va a trovare la sua famiglia e si assenta per soli due mesi, Jiddo la tradisce. Nonostante l’enorme sacrificio di lei, i nove figli, la sua continua presenza, l’enorme appetito sessuale del marito la ferisce là dove fa più male. Teta perderà la voce, emblema dell’unica parte di sé che le era rimasta, dopo aver messo da parte tutto per iniziare una nuova vita insieme al marito.
Ma questa donna dall’enorme forza, attutita dalla solita condizione femminile che conosciamo bene (vi è un assaggio anche nella recensione di Rosso come una sposa di Anilda Ibrahimi), è il seme da cui germoglia tutto, da cui nasce questo libro denso e intrecciato.
Viene raccontato più di un secolo di Damasco, con le vicissitudini storiche che toccano la città e vedono la famiglia Baroudi crescere ed espandersi tra rapporti, bugie, realtà camuffata dalla fantasia. Le storie dei singoli personaggi sono uniche, ma al tempo stesso si confondono e mescolano; non ti lasciano fino alla fine, perché è proprio lì che tutto si svela e il mistero dei sentimenti umani si infittisce.
È un libro plurale, sfarzoso e lineare al tempo stesso. I discendenti di Teta e Jiddo abbracciano i riti e le credenze, ma si evolvono insieme all’evolversi del tempo. In fondo la storia ci cresce e non ne siamo mai esuli, né orfani.
Mi ha lasciato un enorme senso di “verità” questo romanzo. Mi sono ritrovata a pensare all’infinità di storie tutte diverse, per quanto simili, che possono essere racchiuse nelle vicende famigliari e al labile confine tra realtà e fantasia, tra sincerità e bugia nei resoconti, nei ricordi di coloro che ci accompagnano lungo la vita o di quelli che ci sfiorano solo per qualche anno.
Tante storie in una, perché la vita stessa è fatta di tante storie e tanti punti di vista.
Cosa mi è piaciuto: Suad Amiry, l’autrice, è un architetto palestinese e ha un modo di raccontare ricco di spunti emotivi e descrittivi, che riesce a condurre il lettore alla fine del libro con fermezza e quel pizzico di curiosità degni dei migliori narratori. Chi dice che il mestiere di una persona esclude il resto dei talenti e delle capacità, non si è guardato abbastanza attorno.
A chi lo consiglio: a chi vuole fare una passeggiata per Damasco e provare a ricordarla o riconoscerla per com’era. A chi è curioso di scoprire nuove usanze e pietanze o conoscere pezzi di storia che a scuola non si studiano.
Abbinamento suggerito: arak, liquore tradizionale della mezzaluna fertile.