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Nucleare e Ucraina, i rischi per l’Italia in caso di attacco

Parte di questa intervista è stata pubblicata su Il Resto del Carlino

Se ci fosse un attacco a una delle centrali nucleari ucraine, cosa accadrebbe? La propagazione delle radiazioni arriverebbe fino in Italia? Si è parlato molto di rischio nucleare da quando è iniziata la guerra in Ucraina e si continua a farlo. Anche se i russi hanno lasciato Chernobyl, le minacce di una escalation sono continue.

Il “Piano nazionale italiano per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari“, aggiornato dal governo a inizio marzo (un documento che sarebbe stato pubblicato a prescindere dalla situazione attuale) riporta le regole comportamentali da osservare in caso di incidente nucleare in Europa o fuori. Per esempio, si consiglia di “trovare riparo in un ambiente chiuso con sistemi di ventilazione o condizionamento spenti; restare nelle abitazioni con porte e finestre chiuse con limiti di tempo da poche ore con un limite massimo di due giorni (in via precauzionale)”. Altre misure protettive sono il “blocco cautelativo di consumo di alimenti prodotti territorialmente (verdure fresche, frutta, carne, latte), ma anche il blocco della circolazione stradale”.

Ma quanto è reale questo rischio e quale dovrebbe essere il comportamento giusto?

“Le centrali nucleari variano enormemente per entità, dinamica degli eventi e per le conseguenze. Un conto è un incidente nucleare come quello che si temeva potesse succedere a Chernobyl durante l’occupazione russa, cioè per una mancanza di corrente. Un discorso diverso invece andrebbe fatto per la centrale di Zaporizhzhia o per le altre dell’Ucraina, qualora venissero colpite con un missile per esempio”, commenta Andrea Mentrelli, professore ordinario di Fisica matematica all’Università di Bologna, con una laurea e un dottorato in ingegneria nucleare ed esperienze lavorative nell’ambito nucleare anche in Francia.

Professore, quali conseguenze avrebbero potuto esserci se Chernobyl fosse rimasta a lungo senza energia elettrica?

“Senza elettricità i problemi ci sarebbero stati, ma sarebbero rimasti localizzati a Chernobyl e nelle immediate vicinanze. Non sarebbe stato nulla in confronto all’incidente di 36 anni fa. Anche se accadesse, sarebbe un incidente di cui preoccuparsi, ma senza impatto per il resto dell’Europa. Invece, nel caso di colpi di artiglieria che dovessero colpire il sarcofago (una robusta corazza in cemento armato che protegge il nucleo, ndr) potrebbero, nella peggiore delle ipotesi, esserci delle fuoriuscite, ma localizzate. Non si tratterebbe di una esplosione di un reattore nucleare”.

Qualora esplodesse un reattore nucleare a Zaporizhzhia invece?

“Gli incidenti nucleari variano moltissimo per entità. Un conto è pensare a un missile o una bomba che colpisce una centrale e questo sarebbe molto grave; un altro è pensare a un incidente indiretto o minore, come mancata fornitura elettrica a una centrale o atti di guerriglia come ci sono stati a Zaporizhzhia (com’è successo a inizio marzo, ma anche a fine aprile con i missili da crociera che hanno volato a bassa quota, ndr). Sono ipotesi che provocherebbero danni locali, ma che non coinvolgerebbero l’Italia o l’Europa. L’unico modo per avere un evento che interessi l’Europa, forse anche l’Italia marginalmente, potrebbe essere un bombardamento o un missile che colpisca una centrale. Sarebbe un evento estremo, ma anche un’arma a doppio taglio, perché l’Ucraina confina con la Russia”.

Non è possibile che succeda ancora qualcosa di simile a Chernobyl?

“Chernobyl è lo scenario peggiore immaginabile ed è difficile pensare a qualcosa di peggio. Le conseguenze di una probabile esplosione sono molto legate ai fenomeni atmosferici. Anche alla domanda ‘che conseguenze possiamo avere in Italia dal peggiore evento catastrofico, come quello di Chernobyl?’ è difficile rispondere perché dipende molto dalle condizioni meteo generali, dalle piogge e dai venti in tutta Europa. Questi ultimi tra l’altro spingono in maniera predominante verso la Russia. Per cui sarebbe la prima regione coinvolta da incidenti nucleari di ampia entità. Rimangono comunque tante causali ed è impossibile sapere oggettivamente cosa accadrebbe”.

Ma anche nella peggiore delle ipotesi l’Ucraina è distante più di 2mila chilometri dall’Italia. Forse l’allarme non sarebbe immediato.

“Sì, è così lontana, che innanzitutto ci vorrebbe tempo prima di ricevere eventuali radioattività. Poi va anche detto che i sistemi di controllo non sono quelli di 36 anni fa. Ora è tutto molto monitorato e c’è molta più attenzione, così come i reattori di Zaporizhzhia sono molto diversi. Oggi è impensabile che succeda che un reattore bruci per una settimana a cielo aperto, senza dire niente a nessuno, come è successo a Chernobyl. L’altra differenza è che Chernobyl nacque per scopi militari, quindi per produrre plutonio per le armi nucleari, poi fu convertita alla produzione di energia elettrica. Le centrali di oggi sono a uso civile e hanno altri sistemi”.

Il ‘Piano italiano per le emergenze nucleari’ propone un elenco di comportamenti da adottare in caso di allarme nucleare. Ma le zone di rischio per l’Italia sono poste entro i 200 km e oltre i 200 km.

“Se succede qualcosa di così grave a una centrale in Francia o in Slovenia, le conseguenze sarebbero ben diverse, perché siamo molto più vicini”.

Cosa pensa delle misure menzionate, sono fattibili?

“Servirebbero interventi di controllo indiretti sull’alimentazione almeno per qualche tempo. Ma il blocco della circolazione mi sembra un po’ estremo, lo si può attuare al limite in un raggio di 30-50 km da dove succede l’incidente. Chiudersi in casa è la prima cosa da fare, in caso di incidente nucleare così come non esporsi alle radiazioni. Già i muri e le strutture, in cemento ancora meglio, bloccano le radiazioni. Nel caso peggiore – ma non riguarda un incidente in Ucraina a 2mila km, bensì un incidente molto più vicino a noi e stiamo davvero parlando di un evento drammatico – chiudersi in casa, non stendere i panni fuori, farsi la doccia se si è stati fuori sono già cose che aiutano moltissimo”.

Ha senso andare in un rifugio, che può essere anche un garage o una cantina?

“Per le popolazioni più vicine all’evento nucleare, avere un bunker o una cantina sarebbe ancora meglio. Di sicuro una casa in cemento è meglio di una in legno. Ma chiudersi in casa, non stare affacciati alla finestra, magari chiudere le tapparelle sarebbe già importante, perché bloccano il passaggio di radiazioni. Vale anche per gli animali che sono da tenere in casa. Ai tempi della Guerra Fredda, gli americani dicevano cosa fare in caso di attacco nucleare, tra cui appunto chiudersi in casa, ma anche se si è all’aperto, proteggersi il viso anche solo con una sciarpa, mettere le mani in tasca, usare gli occhiali da sole, non lasciare la pelle esposta alle radiazioni”.

Riguardo le pillole di iodio, crede sia necessario assumerle?

“No, assolutamente no. In primo luogo, lo iodio che si compra in farmacia è un integratore alimentare e non servirebbe a niente. Specifichiamo che la profilassi con lo iodio è un’efficace misura di intervento per la protezione della tiroide e interviene inibendo o riducendo l’assorbimento di iodio radioattivo a gruppi sensibili della popolazione. Quindi, se la nostra tiroide è già satura non assorbe iodio radioattivo. E la popolazione italiana non ha carenze rilevanti di iodio, grazie all’alimentazione, mentre ai tempi di Chernobyl era più carente. Oggi potrebbe avere senso per certe fasce di popolazione, ma da circa 50 anni in su può avere delle controindicazioni. È un trattamento che va valutato, sono medicinali che vanno prescritti e di cui si cui si occuperebbe il Servizio sanitario nazionale”. (Nel piano di Governo si consiglia la iodio-profilassi alle fasce d’età 0-17 anni o 17-40 anni con particolare attenzione a donne incinta o in allattamento, ndr).

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