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Cinema

“Ethos”, la serie turca: un gioco di sguardi nelle vite degli altri

Due anime di un popolo. Due facce di un paese. “Ethos” riesce a rappresentare, con spiazzante realismo, il bivio in cui si trova un paese multietnico e transcontinentale come la Turchia. Da una parte modernità, razionalità, istruzione, pensiero intellettuale, dall’altra tradizione, religione, famiglia, culto.

Prodotta per Netflix, “Ethos” (in turco “Bir Başkadır”, letteralmente “Tutta un’altra cosa”) è una serie del 2020 di otto episodi, il cui regista è il drammaturgo turco Berkun Oya e con Ali Farkhonde come produttore esecutivo.

Meryem che indossa il velo e Perim che ha studiato all’estero

Al centro della storia c’è Meryem, una giovane ragazza turca, interpretata da Öykü Karayel. Afflitta da certi svenimenti che la colgono improvvisamente e senza che ci siano cause fisiche rilevanti, i medici le consigliano una terapia psichiatrica per scoprirne l’origine. Tutto inizia proprio dalla prima seduta ed è qui che si scorgono le visioni agli antipodi di una ragazza musulmana, poco istruita e che indossa il velo come Meryem e la psichiatra Peri, figlia di genitori “liberali”, che l’hanno mandata all’estero a studiare e veste all’occidentale.

Mentre la dottoressa, statuaria e impassibile ascolta, Meryem parla e le sue emozioni traspaiono dalle sue parole con la potenza di un uragano. Non è sprovveduta, come un primo sguardo di Peri al suo velo potrebbe far supporre. E la sua ingenuità è solo una prima facciata.

La dualità tra le due donne si gioca proprio sul velo, che diventa il primo ostacolo tra di loro. Peri ha un grosso pregiudizio a riguardo, che le deriva dall’infanzia: «Una donna con il velo era una mostruosità per mia madre», racconta lei stessa a Gülbin, la psicologa presso cui Peri è, a sua volta, in terapia. Poi continua: «Ho studiato al Robert College, ho fatto l’università in America e qual è il risultato? Che quando sono tornata, fuori c’è un mondo diverso. E sono loro che hanno il potere, sono la maggioranza. Mentre tu e io nel nostro paese siamo come in un acquario».

Nonostante i preconcetti, il dialogo e l’ascolto tra psicoterapeuta e paziente proseguono. Meryem parla di quello che le viene in mente, ma a certe domande di Peri, quelle più dirette, fatte con l’intenzione di scavare nell’inconscio della ragazza alla ricerca del problema, non risponde. Non per questo però non comprende la strategia della psichiatra. «Certo che lei ci sa proprio fare sorella», dice Meryem, con un sorriso tra il sorpreso e il compiaciuto, alla fine della prima seduta. «Tanto ci gira attorno che alla fine arriva dove vuole, senza che gli altri se ne accorgano. Quei sei anni di studio hanno dato buoni frutti». E così dicendo quasi la prende in giro. «Astuta», sarà la reazione di Peri.

Tutta un’altra cosa: dialoghi, sguardi e il linguaggio del film

Colpi e contraccolpi nelle regole di un civile dialogo a due, che poi si dirama come una ragnatela, innescando un processo di sguardi nelle vite degli altri personaggi della storia che sono tutte concatenate tra loro. Così si scopre che il signor Sinan, del quale Meryem sembra essersi innamorata e che conosce perché va a casa sua a fare le pulizie, ha una relazione con Gülbin. Questa psicoterapeuta, che mal sopporta i pregiudizi di Peri, deve a sua volta avere a che fare con simili divergenze di visione all’interno della sua famiglia. Sua sorella Gülan non crede nella medicina e con un fratello disabile a cui dover provvedere, il litigio tra le due è continuo. Il velo che indossa, in questo caso, diventa il simbolo delle sue credenze. «Dovremmo rinnegare Dio e la nostra fede per le sue idee?», dice nella foga della discussione, riferendosi a Gülbin. Un’accusa che, nella sua immediatezza, sintetizza lo spaccato culturale, ma anche sociale e di istruzione, su cui si fonda “Ethos”. Un racconto in cui sono i punti di vista dei personaggi a narrare, con le loro convinzioni e pensieri. Perché qui si parla di tutto fuorché di se stessi, fino poi ad arrivarci. Se all’inizio le situazioni appaiono in un modo, poi evolvono e si mostrano in maniera diversa. “Tutta un’altra cosa” è il titolo, perché nulla è, nella realtà, come sembra in apparenza. E parlare dell’altro diventa lo strumento per arrivare a se stessi. Proprio il dialogo tra due personaggi è emblematico di questo concetto, con riprese statiche e inquadrature in primo piano o mezzo primo piano. Il viso e le sue espressioni comunicano più di mille azioni e mettono lo spettatore a diretto contatto con ciò che il personaggio sta passando in quel momento. In questo senso il linguaggio è quello del cinema classico. Il montaggio dinamico favorisce un clima narrativo teso sull’ascolto di quello che viene detto. Le carrellate ottiche sono utilizzate negli ambienti esterni e i movimenti di macchina sono subordinati agli spostamenti dei personaggi, perlopiù quando camminano fuori. Telecamera fissa su di loro a campi medi o lunghi, o su particolari zone per mostrare punti di vista diversi. In un’inquadratura, per esempio, viene posata a terra e rivolta verso la parte inferiore della porta d’ingresso. Delle persone che ne escono, si vedono solo i piedi.

Regia e narrazione

La narrazione dei momenti salienti avviene nei luoghi al chiuso, con un’attenzione particolare a dettagli e oggetti, che definiscono il tenore di vita e la classe sociale. Il regista osserva i personaggi dall’esterno delle stanze in cui si trovano. Li guarda muoversi con inquadrature che contengono gli stipiti delle porte, come se il trovarsi all’interno li disturbasse o non rendesse abbastanza reale quello che stanno facendo. Ci sono molti movimenti e gesti, che parlano da soli e diventano simbolici – come la figlia dell’hodja (titolo che viene dato all’Imam e che significa “maestro”), che si mette le cuffie della musica in testa e balla nella sua stanza, isolandosi dal mondo e sentendosi solo così se stessa – delineati a loro volta da improvvisi cambi di scena, per allargare la visione della storia e a darle dinamicità.

Con questa narrazione su più piani di sequenza, la trama lineare e cronologica – che porterà a spiegare la scena iniziale del racconto, spezzata a un’analessi lunga tutta la serie – vede Meryem dapprima concentrata su di sé. All’inizio non riesce a comprendersi: ascolta quello che le dicono il fratello Yasin e l’hodja come se fosse l’unica realtà possibile. Con l’aiuto di Peri, però, Meryem si rende conto che la realtà ha molte sfaccettature e piano, piano comincia a fare caso a quel che prima le sembrava di non vedere. Si rende conto, per esempio, che ciò che dice l’hodja è filtrato dalla barriera della credenza. Il fratello Yasin, invece, è irruento e fisso nella sua visione, non gli viene il dubbio che gli avvenimenti potrebbero avere significati diversi da quelli che lui crede.

I traumi dei personaggi e i disturbi psicologici

Il rapporto con lui è rappresentativo dell’evoluzione caratteriale della protagonista, che diventa archetipo per tutti gli altri. Se prima la ragazza tace e acconsente, inizia poi a rispondere all’atteggiamento autoritario del fratello. E quando un’autorità viene sfidata, inizia la repressione. Yasin le intima di interrompere le sedute con la psichiatra, perché una donna che si interroga, studia e si documenta è sempre più pericolosa di una che non lo fa. Così come lo è una donna malata, che tace, tenta di uccidersi, senza che nessuno capisca quale male la affligga o la porti da un medico. Meglio farla vedere dall’hodja. Questa è la storia di Ruhiye, moglie di Yasin, afflitta da depressione. La sua malattia gira attorno alla mancanza di dialogo. Si tiene tutto dentro, non parla del trauma che la perseguita, per questo nessuno la comprende. I dolori psicologici hanno un collegamento diretto con la reazione del corpo. Allora Ruhiye è depressa e Meryem sviene. Ma parlando, anche tramite la psicoterapia, i problemi si possono risolvere.

Meryem fa un viaggio di ascolto e scoperta di se stessa e, insieme a lei, anche gli altri personaggi con la consequenzialità data dal ritmo del film, che rispecchia un gioco di sguardi e opinioni concatenati tra loro, con cambi di inquadratura frequenti e studiate nel minimo dettaglio. Un realismo spiazzante ed efficace.

ETHOS (2020)
Titolo originale: Bir Başkadır
Regia: Berkun Oya e Ali Farkhonde
Genere: Drammatico a sfondo sociale
Produzione: Turchia
Durata: 8 episodi
Cast: Öykü Karayel, Fatih Artman, Funda Eryiğit, Defne Kayalar, Settar Tanriögen, Tülin Özen, Alican Yücesoy, Bige Önal

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